SREBRENICA E IL PRIMO 11 LUGLIO SENZA IRFANKA PASAGIC

Non scrivo più su questo blog da circa sette mesi, per molti motivi. La mancanza di tempo, certo, ma anche la noia: nei Balcani di nuovo succede ben poco, perciò ogni tanto capitano crisi da rigetto. Non è la prima volta che mi succede, spesso poi guarisco. Stasera non scrivo per riepilogare qualcosa: fa tutto schifo come sette mesi fa, da Dodik al Kosovo, dalle turbolenze belgradesi agli affaristi montenegrini. Stasera scrivo per ricordare l'amica e maestra Irfanka Pasagic, alla vigilia del primo 11 luglio senza di lei. Ho conosciuto davvero gli eventi dell'11 luglio 1995 dalla sua voce cantilenante ed arrochita dal fumo. Dico che li ho conosciuti davvero, perché prima sapevo, ma non conoscevo.

Arrivata lei stessa profuga da Srebrenica nel 1992, Irfanka aveva trascorso tutti gli anni della guerra a Tuzla, dove aveva messo subito la propria professionalità di neuropsichiatra infantile al servizio di donne e bambini vittime di disturbi da stress post traumatico. Non era una persona facile, né solare, e la vita l'aveva portata a fidarsi di pochi. Era molto difficile concentrarsi con lei su un solo argomento: mentre fumava una sigaretta e sorseggiava una kafa, Irfanka mischiava tutto, la vita e il lavoro, la politica, lo schifo, i sogni, le speranze, la Jugoslavia e la Bosnia, la dolcezza e la rabbia. I primi racconti di Srebrenica che ho ascoltato dalla sua voce non erano molto diversi da quelli di libri e giornali: date, fatti, numeri. Ma col tempo, e con la fiducia, le cose sono cambiate molto.

Srebrenica tornava sempre, e non poteva essere diversamente, nelle lunghe chiacchierate in un misto di serbocroato, inglese ed italiano che caratterizzavano ogni visita all'associazione Tuzlanska Amica, di cui Irfanka era l'anima. E ogni volta era sempre meno quello che ascoltavo e sempre più quello che vedevo: la Bosnia Erzegovina del dopoguerra, in fondo, è stata per moltissimo tempo una lunghissima appendice dell'11 luglio 1995. I volti dell'identità perduta emergevano dallo sfondo grigio della storia per farsi racconto, carne e sangue. I bambini arrivati nella terribile colonna di profughi di quel luglio, che nell'inferno di caldo e dolore dell'aeroporto di Tuzla, chiedevano quando sarebbe iniziata la scuola, erano quei ragazzi esuberanti e sveglissimi con cui  Irfanka mi ha mandato tante volte a trovare Bojan, il nostro primo bambino adottato a distanza: dovevano essere interpreti, ma sono stati soprattutto maestri a loro volta, riassumendo coi loro molti racconti la sostanza individuale e collettiva del collasso nel caos di un Paese e di una generazione. Sono stati zii e zie per mia figlia Guo, cinese di origine, italiana per cittadinanza, bosniaca per metà del cuore: una metà del cuore che apparteneva ad Irfanka soprattutto.

Voglio sperare che la memoria non si perda, ma non riesco più ad essere certo di nulla. I tempi sono cupi, la storia (come sempre) non ha insegnato nulla...e per di più ho perso un'insostituibile guida. Intanto, come ogni anno, ricordiamo...sperando di ritrovare la forza per costruire.




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